sabato 20 settembre 2014

Vita attiva.

«“Fa’ poche cose” dice il filosofo “se vuoi vivere tranquillo”. [...] Se in effetti sopprimessimo la maggior parte delle nostre parole e delle nostre azioni in quanto non necessarie, avremmo più tempo e più calma». (Marco Aurelio, IV 24)

L'infinito.


L’idea della deducibilità dell’infinito dal finito, quale è sottesa alla celebre dimostrazione dell’infinito matematico, ha sempre trovato in me, e fin dai miei più giovani anni, una radicale resistenza, fondata sostanzialmente sulla perplessità derivante dalla semplice considerazione secondo cui se qualche differenza esiste tra finito ed infinito, essa deve necessariamente essere di carattere qualitativo-ontologico, e non meramente quantitativo. In altre parole, tra infinito e finito sussiste un incolmabile hiatus ontologico, al punto che lo stesso accostamento dell’aggettivo “matematico” ad “infinito” (come l’aggiunta di qualsiasi altra determinazione) non può che dar vita ad un adynaton ossimorico.
Il problema è cogente e, a ben guardare, è lo stesso che si presenta quando si considera la questione dell’origine di ciò che è. Se l’indeducibilità dell’immanente dal trascendente che sopra si è tratteggiata basta da sola a privare di ogni verosimiglianza l’ipotesi creazionistica – perché se il reale originasse da una volizione originaria, essa volizione non potrebbe che contraddistinguere un essere non-trascendente –, non minori problemi presenta l’ipotesi emanazionistica che, sebbene non comprometta lo statuto metafisico del Principio, tuttavia, in ogni sua formulazione possibile (quelle cabalistiche, quelle gnostiche e quella plotiniana), lascia aperta la questione fondamentale del perché dall’Uno principiale (se non addirittura dallo Zero della non-manifestazione) si passi, ad un certo punto (un punto non temporale, ma dal quale in ogni caso il tempo origninerebbe), al molteplice.
Che cosa c’è dunque che sia vero

giovedì 18 settembre 2014

Momenti d'ozio.


Proprio ora, a questa altezza della mia vicenda esistenziale, proprio quando l’assurda legge universale è stata da me non già semplicemente intravista, ma enunciata e sviscerata in profondità; proprio ora che nulla mi stupisce più e tutto ha assunto il suo “posto” nell’ordine cosmico, proprio ora questa sorda sofferenza, che ancora il commercio con gli stolti cui la mia stolta «sete del più basso» mi costringe, mi spinge stoltamente a parlare anziché a tacere.
Il mare frusta le chiglie aduste delle barche in sosta nell’insenatura; pochi avventori, nella deserta calura del meriggio.
Quanto immensamente grande sarebbe, e di quale grandezza tremenda e perfetta, quanto infinito questo cielo, senza la mente che ora lo “pensa”, senza l’occhio che goffamente tenta rinchiuderlo nella gabbia della percezione! 
Me misero, pensante, percipiente. Esistente.

Trash and dance.

La trascendenza – in ultima analisi – non è che un’ebete sovrasemantizzazione del trasalimento.

Al di là del bene e del male.


Come la ‘pulizia’ non è definibile se non in modo negativo, come assenza di sporcizia, così il bene – almeno mi pare – non è definibile se non come assenza di male.
Ad ogni modo, comunque siano definibili, il fatto stesso che bene e male siano definibili prova sufficientemente bene che essi non esistono.

Come bere un bicchier d'acqua.


- L’opera d’arte ‘bella’ in senso proprio ed assoluto è quella la cui fruizione sia semplice, piacevole ed immediata come quella di un bicchiere d’acqua quando la sete stringe le fauci.
Per questo la Commedia di Dante è un libro complessivamente brutto.
- Non sono d’accordo.